Questo articolo parla concretamente di volontariato e saranno più di semplici parole, perché vengono dall’esperienza viva di Mario Antonio Clerici, nostro affezionato lettore e volontario della Croce Rossa. Dalla sua penna nasce una testimonianza viva di quello che significa essere volontari e di che cosa significhi concretamente farsi prossimo.
Il gusto della prossimità per riscoprire il volontariato
Tempi difficili, quelli che viviamo. Tra le tante notizie ce n’è una che forse è stata sottostimata, ma non può lasciarci indifferenti. Si tratta, per la precisione, di un dato – all’apparenza freddo, come tutte le cifre statistiche – divulgato dall’Istat (2023), che parla del calo di 600 mila volontari, in Italia, tra il 2016 e il 2021. La questione è stata un po’ commentata dagli specialisti e messa in relazione al calo della natalità, ai nuovi stili di vita del post-Covid e alla trasformazione di molti profili del volontariato in figure “strutturate”, cioè con contratti di assunzione. Poi si è chiuso il discorso, riconoscendo, alla luce di una minore continuità nell’impegno, una sorta di dimensione “fluida” del volontariato.
Da non specialista di statistiche mi limito ad accogliere queste riflessioni con il dovuto rispetto; tuttavia, da volontario del soccorso – opero in una sezione della Croce Rossa, in provincia di Como, nel Nord Italia – non posso che leggere il report dell’Istat nei termini di una perdita di ricchezza per il Paese, per la comunità, per ognuno di noi. Da cattolico vado oltre, se possibile. Trovo che questo “volontariato fluido” faccia evaporare il gusto della prossimità. Una parola vissuta fino al midollo da chi si mette al servizio del bisogno. Anzi, di chi ha bisogno.
Sì, perché mi pare che il discorso sulla crisi del volontariato (non mancano le eccezioni, s’intende) si allontani sempre di più dal cuore del problema, riassumibile in una domanda: perché facciamo fatica a sentire la “chiamata” dell’altro?
Il volontario dona la vita
All’origine di qualsiasi forma di servizio volontario, cioè non motivato da alcun trattamento economico o beneficio, ma unicamente dall’offrire se stessi – sì, è un donare la propria vita, anche se per poche ore a settimana – vedo la risposta a una interpellazione. Da che parte arriva? Chi mi chiama? Penso che oggi, più che mai, le riflessioni sui grandi temi esistenziali non siano in nessun modo accolte, specialmente dalle giovani generazioni, se non si imbevono di vissuto personale.
Papa Francesco è molto chiaro, su questo aspetto, nelle sue catechesi e negli scritti. Come volontario di lungo corso, in Croce Rossa, ad esempio, io tengo come una bussola alcune parole dell’esortazione apostolica “Christus Vivit” del 2019: a «non creare progetti che isolino i giovani dalla famiglia e dal mondo», ma al contrario, «progetti che li rafforzino, li accompagnino e li proiettino verso l’incontro con gli altri, il servizio generoso, la missione».
Credo fermamente che sia proprio questo a mancare, oggi, nei molteplici settori del volontariato: la testimonianza. Ma di che cosa? La parola chiave è proprio l’ultima nella citazione di papa Francesco: della “missione”.
La “chiamata” alla missione di volontario
Si è mandati verso l’altro, perché si è chiamati. Anche a me è successo. Se ci penso, sembra sia avvenuto tutto per caso, invece nulla è senza ragione, nemmeno l’invito di un commerciante di bombole di gas. Si chiamava Piero, era passato da casa mia per la fornitura – all’epoca, primi anni Ottanta, dalle mie parti si usavano ancora le bombole – e, nel conversare del più e del meno, ha buttato lì una proposta. “Perché non vieni anche tu al corso per volontari del soccorso?”. Così. La sezione locale della Cri ancora non esisteva, però Piero, un autentico visionario, stava lavorando al progetto. Al momento, dopo un sorriso di cortesia e mezzo “sì”, pensavo tra me che non ne avrei fatto niente. Ventenne, ma già padre di famiglia, con due bimbi piccolissimi, un lavoro impegnativo, la mia consorte da supportare, non mi sembrava possibile inserire anche questo impegno nella tabella di marcia. Invece quella chiamata ha iniziato subito a lavorare dentro di me, facendo via via sgretolare tutti i “ma” e i “non posso”, per aprirmi prospettive di crescita.
Se questo è successo, se la proposta di farmi volontario del soccorso non si è spenta, come poteva capitare, è perché mi sono messo per un attimo in ascolto. Non da solo. Ma con mia moglie. Ne abbiamo parlato, lei mi ha sostenuto, motivandomi.
Qualcuno ci chiama a farci prossimo
La carenza di volontari, avvertita a partire dalla stagione della pandemia, ci ha fatto spesso ragionare su come portare nuova linfa all’associazionismo del soccorso. Tutte le strategie hanno valore. Penso, però, che non ci sia nulla di più efficace della comunicazione diretta dell’esperienza, perché è parlare una “stessa lingua”, indipendentemente dalle specializzazioni o dai percorsi scolastici, al di là dell’età e della condizione sociale.
Parlare di volontariato è forse la maniera più bella per rilanciare il valore della “vocazione”, esperienza che in modo differente, unico, tocca ciascuno di noi ma spesso lasciamo scivolare via e perdiamo così una straordinaria opportunità di cambiamento. Con noi c’è sempre un altro / un’altra. Qualcuno che ci chiama.
Il mio riferimento, da credente, è sempre il Vangelo. Penso che, al di là dell’avere o meno fede in Dio, nessuno possa restare indifferente di fronte alla parabola del Buon Samaritano narrata dall’evangelista Luca (Lc 10, 25-37), senza sentirsi toccato dalla sensibilità dell’uomo che, in viaggio, si ferma per prestare soccorso a un poveraccio bastonato e derubato. C’è chi passa oltre, ma l’uomo di Samaria prova compassione e va ben al di là del conforto momentaneo. Versa olio e vino sulle ferite del ferito, caricando il ferito sul proprio giumento e affidandolo alle cure di un albergatore.
Episodi del genere sono continui. Siamo sempre, un po’ tutti, come il levita che passa accanto al poveraccio e non fa nulla. Non mi sento di giudicare nessuno, perché tante volte, pur con le migliori intenzioni, veniamo travolti dai nostri impegni o dalle preoccupazioni, senza renderci conto che, magari a due passi da noi, c’è qualcuno molto più gravato dalla vita. Forse quello di cui abbiamo bisogno è di fermarci a riflettere per chiedere a noi stessi chi consideriamo il nostro prossimo e come dovremmo e potremmo farci prossimo.
Il volontariato è una vocazione, un’esperienza che arricchisce chi la vive e chi la riceve. Rispondere a questa chiamata significa aprire il cuore e le mani, lasciandosi guidare dalla compassione e dal desiderio di servire.
E tu, oggi, ti sei mai fermato a chiederti: “Chi è il mio prossimo? Come posso farmi prossimo?” Forse la risposta è già lì, accanto a te, in attesa che tu decida di ascoltare.