La mia “affinità spirituale” con il grande regista Pupi Avati risale ormai a molti anni fa. Ho sempre apprezzato molto la delicatezza e l’ordinarietà dei temi trattati nei suoi film, ma probabilmente ho anche iniziato a riconoscere, nella sua arte, dei tratti, una visione della vita e dell’uomo molto simile alla mia.
Ho inoltre scoperto che entrambi veniamo da una lunga esperienza nello scoutismo e questo metodo educativo ha probabilmente lasciato in noi delle tracce profonde.
Per questo la scorsa domenica sono andata a vedere al cinema il suo nuovo film, uscito il 4 maggio: La quattordicesima domenica del Tempo Ordinario, titolo che già aveva stuzzicato la mia curiosità.
Per due ore circa, ho assistito alla narrazione di una vita, quella di Marzio Barreca, musicista irrealizzato e disilluso, ma incapace di scendere a patti con la vita e ancora capace, dopo tanti fallimenti, di seguire i suoi sogni. La sua vita si intreccia inevitabilmente con quella della donna da lui amata e dei suoi compagni di strada. Sullo schermo Avati mi ha fatto rivivere la Bologna degli anni ´70 e le ferite che ognuno dei personaggi si porta dietro: Marzio, la mancanza di un padre morto troppo presto e la delusione di un grande amore finito; Sandra, sua moglie, l’incapacità di amare quando non si è stati amati; Samuele, il dolore per la morte di un figlio e di una vita vissuta a metà…
Ma una delle scene per me più toccanti, e che al giorno d’oggi è così inusuale vedere al cinema, è quella nella quale il protagonista, di fronte a una diagnosi difficile fatta a una persona da lui molto amata, si reca in chiesa a pregare. Il regista indugia a lungo sul tabernacolo.
In un’intervista ad Agensir (www.agensir.it), Avati ha dichiarato: «Una volta eravamo in due, perché c’era Ermanno Olmi. Adesso mi sembra di essere rimasto solo… Marzio, dinanzi a questa situazione così complessa dove la scienza dimostra dei limiti, reagisce entrando in una chiesa per pregare. Si rivolge al trascendente in cerca di consolazione, di un aiuto, di ascolto e conforto. Ho chiesto alla platea se ricordasse un film recente con una scena simile, ma nessuno ha saputo rispondere. Allora mi viene da pensare di essere una sorta di eccezione.
Nel film racconto anche la ricomposizione di un matrimonio dopo 37 anni: sono tutti elementi che vengono dal mio retroterra, dalla cultura cattolica, valori per me fondamentali. E continuo ostinatamente a riproporli, esponendomi a volte al dileggio. Credo comunque di manifestare una certa coerenza, non cedendo alle mode di un “proselitismo laico”, che priva della possibilità di intuire che ci sia dell’altro. Al mistero della vita e della morte la scienza ancora non riesce a dare risposte. E anche io mi domando sempre se sono riuscito a dare un senso alla mia vita».
Ha poi aggiunto: «È il “Discorso della montagna”, “Le beatitudini”, il momento più alto del Vangelo, che rileggo tutte le sere: è la mia Costituzione. È la cosa più bella che ci sia, pronunciato da un ragazzo di duemila anni fa indicando come l’essere umano dovrebbe comportarsi nei riguardi del mondo, del prossimo».
E direi che, anche in questo caso, sono più che d’accordo con lui! Vi suggerisco di andare a vedere il film La Quattordicesima domenica del Tempo Ordinario, titolo scelto in onore del giorno del matrimonio del regista con l’amata moglie, per sorprendervi di fronte al lavoro di quest’uomo che come pochi sa scavare nell’animo dei personaggi e descrivere il desiderio di Dio e di felicità che tutti abbiamo dentro.
Barbara, una redattrice dell’Editrice Shalom