Gesù continua a morire in croce nel dolore di ogni figlio

Gesù continua a morire in croce nel dolore di ogni figlio

Morte di Gesù

Nel Vangelo di Giovanni, Gesù muore chiedendo da bere: «Ho sete» (Gv 19,28), invece i sinottici raccontano la morte con questo grido: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», in cui si condensa tutto il dramma della sua vita terrena.

Questo grido, oggi, come in ogni tempo della storia, sta attraversando l’esistenza di tante persone che si trovano proprio a vivere questa stazione: sole, disperate, senza una risposta al loro dolore… e Dio tace, così come ha taciuto nei grandi avvenimenti che hanno sconvolto la terra e il nostro continente nel secolo scorso. Perché Dio rimane in silenzio davanti alla sofferenza di suo Figlio e dei suoi figli? Dio tace, potremmo dire così, per non impedire al suo Verbo di essere l’incarnazione piena e definitiva della sua volontà d’amore per l’umanità; il Padre soffre con il Figlio, ma allo stesso tempo sa e vede che il Figlio sta compiendo la sua missione. Se leggiamo così questo silenzio del Padre, nasce dal cuore una preghiera perché tante persone possano essere sostenute nella loro sofferenza da questo sguardo così austero, eppure, così dolce del Padre che talvolta non accarezza i suoi figli solo perché sa che ce la stanno facendo.

C’è poi un secondo grido che Gesù emette dopo il silenzio del Padre; questo è talmente forte da rompere il velo del tempio di Gerusalemme. Il messaggio che giunge dalla lacerazione di questo simbolo è molto forte: la presenza di Dio, la sua Parola, non è più nell’arca, è nel corpo di Cristo; è lì che si rivela visibilmente tutta la gloria di Dio; tutto il Dio di cui “abbiamo paura” e che non conosciamo, ormai è pienamente visibile nella carne del Figlio che si sta lasciando morire per amore. Potremmo dire che il Padre è stato un regista perfetto, perché ha saputo aprire il sipario al momento giusto, quando dovevano crollare necessariamente sia il sospetto sia la paura nei suoi confronti, davanti a un segno d’amore così grande. 

Gridare significa confessare, in modo anche drammatico, la speranza che la vita possa tornare ad avere la meglio sulla morte. È curioso il fatto che entriamo nella vita con un grido e ne usciamo con un grido, a volte silenzioso, a volte reale, e sono i due atti di protesta necessari quando lo scenario cambia improvvisamente. Il secondo grido è simile a questo: Dio ci “caccia” violentemente fuori dalla scena di questo mondo e noi gridiamo perché non sappiamo esattamente in che modo, in che tempi potremmo conoscere una nuova vita; quindi ci troviamo davanti a due grida assolutamente necessarie. Gesù, morendo in questo silenzio del Padre, che rispetta fino in fondo la libertà del suo Figlio, ci mostra che si può affrontare la sofferenza amando.

In questo senso, vedere Gesù morire sulla croce ci educa; è come una rugiada che ci avvolge nei momenti di sofferenza, perché è quel grido silenzioso che ci dice: «Non avere paura, io l’ho fatto, lo farai anche tu e dopo questo attraversamento saremo figli, insieme, davanti al Padre».

La morte di Gesù ci costringe ad abbandonare l’idea di un Dio onnipotente, come a noi piacerebbe pensare. Dio è onnipotente, ma nell’amore, e l’amore non impedisce mai all’altro di esercitare la propria libertà, anche quando questa gli si ritorce contro.

La morte di Gesù ci ricorda che c’è una grande speranza per ogni sofferenza, nostra e di tutte le persone che portiamo nel cuore. Inoltre, ci insegna che anche i momenti di sofferenza, in cui ci sembra soltanto di venir meno e di perdere ogni cosa, sono in realtà i momenti che dicono la nostra grande dignità di essere uomini e donne creati a immagine del Figlio di Dio, quindi capaci non solo di fare delle scelte nella vita, ma di portarle a compimento, anche quando questo ci conduce a dover morire a quello che ci eravamo immaginati, a quello che avevamo pensato o sperato, a quello che avevamo scelto, sapendo che la nostra libertà è il dono più grande che Dio ci ha fatto e attraverso quella libertà noi possiamo continuare ad amare, anche nei momenti più difficili (tratto dalla meditazione di fra Roberto Pasolini alla dodicesima stazione, in “Via Crucis. Il dono più prezioso”).


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