Liturgia della Domenica – 13 settembre 2020

Liturgia della Domenica – 13 settembre 2020

Liturgia della domenica - 13 settembre 2020

I commenti sulla liturgia del giorno tratti dal Messalino “Sulla Tua Parola” di settembre/ottobre 2020.

24ª domenica del Tempo Ordinario (A)
4ª sett. salt.


PRIMA LETTURA

Dal libro del profeta Siràcide (Sir 27,33 – 28,9 (NV) [gr. 27,30 – 28,7])
Rancore e ira sono cose orribili, e il peccatore le porta dentro. Chi si vendica subirà la vendetta del Signore, il quale tiene sempre presenti i suoi peccati. Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati. Un uomo che resta in collera verso un altro uomo, come può chiedere la guarigione al Signore? Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile, come può supplicare per i propri peccati? Se lui, che è soltanto carne, conserva rancore, come può ottenere il perdono di Dio? Chi espierà per i suoi peccati? Ricòrdati della fine e smetti di odiare, della dissoluzione e della morte e resta fedele ai comandamenti. Ricorda i precetti e non odiare il prossimo, l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui. Parola di Dio.

Commento alla prima lettura

Ci sono alcuni libri della Bibbia che vengono letti poco nelle nostre liturgie. Oggi la prima lettura è tratta proprio da uno di questi: il Siràcide. Strana parola su cui forse è utile spendere due parole. Si tratta di un libro dell’Antico Testamento, composto intorno al 180 a.C. e tradotto in greco nel 132 a.C. Il suo autore è un certo Gesù figlio di Sirach e nei 51 capitoli compendia un po’ tutta la sapienza della tradizione ebraica. Regole di cortesia, precetti, rispetto del culto, superamento delle prove della vita, il timore di Dio, i giusti rapporti con l’autorità politica e con il prossimo. Oggi il nostro Gesù figlio di Sirach si mostra quasi un profeta, anticipa quello che sarà uno dei contenuti della preghiera del Padre nostro di un altro Gesù, il Figlio di Dio. Un invito pressante a fondare i rapporti sulla misericordia, sul perdono, a bandire la vendetta dalla nostra vita legando a queste scelte l’agire stesso di Dio nei nostri confronti. È confortante sapere che quando diamo ascolto alle istanze profonde del cuore troviamo già il seme della presenza del Signore Gesù, eterno come il Padre.


SECONDA LETTURA

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 14,7-9)
Fratelli, nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore. Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi. Parola di Dio.

Commento alla seconda lettura

Cosa c’è di più triste che vivere per sé stessi? L’uomo che vive chiuso in sé stesso, sempre ripiegato sui suoi bisogni, sui suoi desideri sperimenta la morte in anticipo. La vita è essenzialmente relazione. Non ci diamo la vita da soli, abbiamo bisogno degli altri per crescere, imparare, amare. E tra tutti gli altri c’è l’Altro, Dio, l’unico capace di dare un senso eterno a tutto ciò che sembra finito e contingente. Se vivere per sé stessi è il segno di una grave patologia, se vivere per gli altri può, a volte, portarci alla delusione e farci sperimentare il limite di ogni rapporto, è solo vivendo per Dio, che resta in eterno, che possiamo fare l’esperienza di un senso della vita che non è attaccato dal virus della morte e del limite. L’apostolo Paolo richiama fortemente questa verità ai cristiani di Roma. Vivere per il Signore non vuol dire, innanzitutto e soltanto, vivere per servirlo, ma vuol dire anche vivere grazie a lui. Sono vivo grazie a te, mio Dio, o, come amava dire il servo di Dio don Luigi Giussani, «io sono Tu che mi fai». La vita trova l’orizzonte eterno di ogni suo momento.


VANGELO DEL GIORNO

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 18,21-35)
In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello». Parola del Signore.

Commento al Vangelo del giorno

Nella Bibbia i numeri non sono mai soltanto numeri. Come nella vita di ogni giorno anche noi usiamo dei modi di dire che contengono dei numeri ma ne trascendono il loro significato materiale (basti pensare a frasi del tipo: «Facciamo quattro passi», oppure: «Ci facciamo due spaghetti», che vogliono significare molto di più di ciò che dicono), così nella Bibbia il numero sette rappresenta sempre il compimento dell’opera di Dio. Indica il sabato, giorno sacro per eccellenza, indica la perfezione dell’opera di Dio che, realizzata in sei giorni, trova nel settimo la sua contemplazione. L’apostolo Pietro ponendo la domanda sul perdono da accordare al fratello pensa di fare bella figura, ha sparato il massimo che la mente umana possa concepire. Gesù prende questo massimo e lo porta all’infinito. Solo l’infinito, infatti, può essere l’unità di misura dell’amore e, quindi, del perdono. Gesù usa una parabola per permettere a Pietro, e a noi, di formulare la risposta adeguata. La parabola ha la forza di metterci in situazione, ci provoca a leggerci dentro per capire in quale dei personaggi ci identifichiamo. Che cuore meschino doveva avere quel servo malvagio che, perdonato, non è disposto a perdonare! E il nostro cuore?


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